venerdì 31 luglio 2015

TEORIA COMPLETA DELLE INVARIANTI NELL'ARCHITETTURA


Ed ecco dunque l’elenco aggiornato, delle invarianti Zeviane e di quelle individuate da chi sta scrivendo queste note. con la fondata convinzione che quest’elenco possa essere ulteriormente allungato. Giova ricordare che le invarianti individuate da Bruno Zevi si ritrovano solo nell’architettura contemporanea mentre le invarianti individuate da franz falanga sono individuabili sia nell’architettura che parlava latino e greco, sia nel caso  dell’architettura  contemporanea. 

 

Prima invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: l’elenco delle funzioni edilizie in una villa di Edwin Lutyens costruita in Inghilterra (1902).

 

Seconda invariante zeviana del linguaggio moderno

dell’architettura: asimmetria e dissonanze nella casa del direttore del Bauhaus a Dessau, progettata da Walter Gropius nel 1925/26.

 

Terza invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: tridimensionalità antiprospettica nella casa Sternefeld a Berlino, progettata da Erich Mendelsohn nel periodo espressionista (1923).

 

Quarta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: sintassi della scomposizione quadridimensionale nel disegno Filmmoment di Hans Richter, membro del gruppo De Stijl (1923).

 

Quinta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: strutture in aggetto, gusci e membrane nelle tende plastiche del padiglione progettato da Frei Otto all’Expo di Montreal 1967.

 

Sesta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: temporalità dello spazio nella spirale continua del Guggenheim Museum a New York progettato da F.L.Wright nel 1946-59.

 

Settima ed ultima invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: reintegrazione edificio-città-territorio nel Mummers Theater a Oklahoma City, progettato da John Johansen nel 1971.

 

Ottava invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi siano in contatto fra loro, avendo stessa direzione e verso differente.

 

Nona invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi siano in contatto fra loro, avendo due direzioni diverse e confluendo nello stesso punto.

 

Decima invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un unico materiale cambi direzione.

 

Undicesima invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un materiale termini.

 

Dodicesima invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui dovesse terminare un materiale, iniziasse un vuoto e subito dopo ri-iniziasse quindi lo stesso materiale.

 

 

CONSIDERAZIONI

Se analizzassimo, ad esempio, la decima invariante, quella in cui un materiale cambia direzione, noteremmo subito, come dianzi ho detto,che ci troviamo in presenza della soluzione d'angolo. Come ci comporteremo noi o come si sono comportati gli altri progettisti, in qualsiasi epoca e in qualsiasi punto della terra, il momento in cui hanno dovuto far cambiare direzione allo stesso materiale? Si badi bene che questo momento esiste sia nel caso in cui è necessario far deviare dal proprio percorso una comunissima traccia di grafite ottenuta facendo scorrere sul foglio di carta un bastoncino di grafite a sezione quadrata, sia una normalissima matita, sia una pastiglia di grafite a sezione trapezoidale, sia nel caso in cui a doversi piegare (o voltare) è un muro in mattoni, o in tufi, o in granito, oppure un profilato a T, a U, a L, o un tubo a sezione circolare, o una serie di case a schiera che dovessero cambiare direzione, e così via di seguito.

 

Se invece prendiamo in considerazione l’ottava invariante, quella in cui dobbiamo mettere in contatto due materiali diversi noteremo, altrettanto immediatamente, che ci troviamo in presenza del complesso problema di rendere interfacciabili due materiali completamente diversi fra loro. Anche questo momento particolare è riscontrabile sia nel caso in cui il progettista sia un architetto, sia nel caso in cui si tratti di un

designer, un orafo, un sarto, un qualsivoglia creativo. Esaminando con attenzione le soluzioni individuate, per esempio l’unione di vetro e calcestruzzo, oppure l’unione di legno e pietra, oppure una unione di laminato plastico e alluminio, oppure una unione di oro e argento, o di stoffa e cuoio, ci accorgeremmo che è esattamente in questi particolari che vien fuori la maestria o la banalità dei progettisti nel risolvere il problema.

 

L'aver dunque individuato la presenza di queste nuove invarianti, sto adesso parlando di quelle da me individuate  ci permetterà di guardare in modo più attento e molto più rigoroso a tutte le varie soluzioni del problema che siano state individuate in qualsiasi tempo e luogo dai rispettivi progettisti. Nel caso invece di una progettazione ex novo, la consapevolezza della inevitabile “comparsa”, sulla scena del progetto, di queste invarianti ci dice che abbiamo costantemente degli appuntamenti fissi con problemi formali e strutturali  che non dovranno assolutamente essere saltati a piè pari, che non si possono tranquillamente eludere, che è colpevole pratica ignorare, ma che, al contrario, dovranno essere affrontati e risolti senza cadere in soluzioni banali, ovvie, o, addirittura, in non soluzioni. Quest’ultimo caso è il peggiore, perchè, giova ripeterlo, è il tipico caso in cui, quando codesti momenti topici si dovessero appalesare, vengono colpevolmente ignorati. Uno dei lati coinvolgenti di questo mio lavoro fin qui descritto, è che, dopo che questa teoria è nata vivendo l’architettura come mestiere, mi sono reso conto che può essere sperimentata anche nel design, nella pratica letteraria, nella pratica filmica, in ogni campo insomma, dove la creatività sia la protagonista principale. A meno, ovviamente, dei naturali e rispettivi coefficienti.

 

Tornando all’architettura (e alle altre categorie creative come dianzi detto) e alle invarianti, il momento in cui si decidesse di utilizzare questa teoria nella propria progettazione o parlandone agli studenti nascono ovviamente altri due problemi molto interessanti, e molto coinvolgenti. Mi spiego subito. I libri fotografici sull’architettura o  su oggetti di design, nati prima della teoria delle invarianti, nei quali le fotografie degli oggetti erano state scattate senza tener presente l’esistenza delle invarianti, ridurrebbe di molto l’utilità di codesti libri. Va da sè che sarà quindi necessario ri - eseguire fotografie nelle quali le invarianti siano evidenziate in maniera estremamente chiara.

Questa nuova maniera di concepire le fotografie di oggetti architettonici o di design, assumerebbe una straordinaria utilità, specialmente nella didattica dell’architettura e nella storia dell’architettura. Il secondo problema nasce anch’esso  come necessaria conseguenza, nel senso che, se tutte le fotografie delle invarianti di architettura o di design, fossero inserite in un database dedicato, la didattica e la conoscenza avrebbero uno strumento in più. Evidentemente i database delle università e delle Accademie dovrebbero essere tutti compatibili fra loro in modo da poter trasferire foto di invarianti da una banca dati, ad un’altra per aggiornamenti continui.  E’ evidentemente ovvia l’utilità di database del genere.  

Queste due novità strumentali, rifare le foto alla luce delle invarianti e progettare particolari database  dedicati, sarebbero oltre tutto due nuove occasioni di lavoro per le nuove generazioni.    

 

E’ molto importante sapere che Bruno Zevi si augurava che altri architetti potessero aggiungere ulteriori invarianti a quelle che lui aveva direttamente individuato. Come però scriveva lo stesso professor Zevi, le future aggiunte sarebbero state le benvenute a patto che non contraddicessero le precedenti. Mi pare assolutamente corretto dal punto di vista logico.

 

Mentre scrivevo queste note mi è venuta in mente un’altra invariante, allo stato “latente”  della quale però non sono però molto convinto, perchè questa nuova tredicesima eventuale invariante da me individuata non credo che potrebbe essere considerata un’invariante dal punto di vista formale, mentre è certamente una caratteristica invariante, comunque presente nell’architettura moderna.

La chiamerei quindi una caratteristica costante più che una invariante costante. Giova dire che è anche presente allo stato latente nell’architettura classica, ma quello che mi convince ad inserirla fra i momenti invarianti dell’architettura contemporanea è esclusivamente il fattore temporale.

        Va quindi detto che, mentre nell’architettura che parlava latino e greco e nelle architetture precedenti l’uso del cemento armato, questa invariante è comunque presente anche se molto, molto, molto diluita nei secoli, nell’architettura contemporanea, al contrario, si manifesta con virulenza (è la parola più appropriata) addirittura dopo qualche decennio.

Giova il ripeterlo, sto parlando della “deperibilità” del manufatto architettonico nell’architettura contemporanea. L’architettura contemporanea stranamente pare non contemplare l’invecchiamento fra le sue caratteristiche. L’architettura contemporanea ahimè invecchia male e questo fatto la condanna tragicamente. Un precoce invecchiamento dell’architettura contemporanea in questione, è una particolarissima caratteristica quasi mai risolta da moltissimi architetti contemporanei, perché, ancorchè prevedibile, è molto più cruenta e molto più pacchianamente evidente nell’architettura del XX secolo e in quella degli inizi degli anni duemila. A fronte del “naturale” invecchiamento che invece insiste sull’architettura classica.

     Nella pratica architettonica, da sempre, è logico e naturale che tutto invecchi dal punto di vista formale, mentre è molto più difficoltoso a notarsi, e quindi molto meno evidente, il fatto che tutto invecchi dal punto di vista costruttivo.

      L’obsolescenza di una forma o di una struttura è fenomeno ricorrente da sempre, ma questa obsolescenza, ahimè, è molto più percettibile nell’architettura contemporanea. Secondo me quindi L’architettura contemporanea, dal canto suo, invecchia con minore dignità del resto dell’architettura che l’ha preceduta nei secoli. Le cause di questo deperimento fisico/funzionale sono molteplici, proverò inizialmente ad elencarle.

       Al primo posto metterei i materiali. Il calcestruzzo, per esempio, dopo un commensurabile tempo di esistenza, si sgretola in certi punti a causa del ferro entrocontenuto che, non essendo in alcuni punti abbastanza protetto, viene attaccato dagli agenti atmosferici producendo conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi. Il ferro viene anche attaccato da impurità grossolane che spesso si trovano negli inerti.

     E ancora, gli intonaci esterni contemporanei, insieme ai vari tipi di rivestimenti anch’essi esterni, hanno delle componenti che non favoriscono la perfetta respirazione delle murature, esterne ed interne, e producono conseguenze che tutti conosciamo. La scomparsa quasi totale del grassello di calce che è stato sostituito da nuovi prodotti simili ma di origine sintetica è un ulteriore momento/causa di deperibilità. Per non parlare poi dei fenomeni degenerativi di certe campiture di colore dovute all’uso di materiali sintetici che reagiscono molto più rapidamente del normale alla luce naturale, aumentando di molto la loro fotosensibilità.

       Potrei continuare, ma mi fermo qui perché, rileggendo queste brevi note mi sono accorto che quando ho usato la frase “al primo posto metterei i materiali” avrei dovuto molto brutalmente riscrivere la frase medesima in altro modo, e cioè: “Al primo posto metterei l’uso sconsiderato dei materiali e il consumismo dilagante”. Allora si evincerebbe molto meglio la malinconica realtà. L’uomo, e cioè i progettisti, gli esecutori, la committenza sempre meno illuminata, sono i veri artefici di questo innaturale (perché rapido) invecchiamento dell’architettura contemporanea.

       Paul Valery, come diceva Scarpa, ha scritto che l’architettura è nei particolari, ma, ahimè, questa virtuosa affermazione perde di significato il momento in cui arriviamo ai giorni nostri. I particolari costruttivi ben studiati e i particolari di altro ordine, rappresentano generalmente una perdita di tempo preziosissimo per gli attuali addetti ai lavori, siano essi i progettisti, siano essi gli esecutori, ai quali poco interessa la tenuta nel tempo di quanto hanno  eseguito.

       Non è dunque il nuovo che avanza, ma il pressappochismo che avanza; la ricerca paziente del caro Lecorbu è andata in soffitta, per cui diventa pateticamente inimmaginabile trascorrere giorni e giorni alla ricerca di soluzioni costruttive e formali giuste. Tutto il grande patrimonio del procedere per gradi, aumentando conseguentemente l’approfondimento, è scomparso quasi completamente dalla coscienza collettiva degli addetti ai lavori. Mutuando un’affermazione fatta da Baricco, non si va più in profondità, si surfeggia. Chi mi starà leggendo ha certamente presente il tipico impresario che tuona con supponenza contro gli architetti che gli fanno sprecare tempo “prezioso”. Il meccanismo ormai è ben consolidato e ben oliato e quando, come mi auguro caldamente, qualcuno vorrà nei secoli futuri scrivere la storia dell’architettura del novecento e degli inizi del XXI secolo, dedicherà in negativo molte pagine a questo periodo buio dell’architettura  contemporanea e ahimè spesso considerata  anche moderna.

       Dopo aver individuato questa tredicesima latente costante dell’architettura contemporanea che indubbiamente è, al contrario delle altre, una caratterizzazione negativa, sorge prepotentemente il problema del come progettare, tenendo conto delle sette invarianti zeviane e delle mie cinque, cercando contemporaneamente di non incappare nella tredicesima invariante “latente”, quella cioè che riguarda la deperibilità dell’architettura contemporanea.

      E qui si propone il campo sul quale intervenire. E’ banalmente ovvio, ma bisogna intervenire sugli anelli deboli della filiera e cioè sui futuri architetti e sulla mentalità della committenza. Per quanto riguarda gli architetti è possibile intervenire all’interno delle strutture universitarie, per quello che riguarda la committenza l’intervento è molto più difficoltoso ed articolato e va rimandato in/ad altre sedi più acconce. Tralascio quindi la committenza, intesa sia come clienti che come esecutori, e passo tout court all’università, alle accademie, alle scuole di design e a tutte le altre organizzazioni culturali dedicate all’insegnamento e alla progettazione nel campo della forma e della funzione. In queste strutture, secondo me, è ancora possibile, ancorchè molto difficile, riprendere le fila di una cultura troncata, di un nuovo Bauhaus. Dopo aver individuato la latente invariante che si potrebbe aggiungere direttamente a quelle zeviane e alle mie, e cioè la deperibilità, mi sono accorto che fra i due insiemi di invarianti che ho dianzi esposto (le invarianti individuate da Bruno Zevi e quelle individuate da me) si è aperto un canale di comunicazione che permette un interfacciamento che certamente sarà utile nel prossimo futuro. Mi spiego meglio. Quest’interfacciamento, questa collaborazione fra i due sistemi di invarianti, le zeviane e le mie, dovrebbe rendere la “deperibilità” più diluita nel tempo, portando così i tempi di deperimento molto più vicini a quelli più “naturalmente” lenti della cosiddetta architettura classica. Come? Innanzi tutto dedicando propedeuticamente buona parte della didattica dell’architettura all’individuazione delle cinque invarianti da me individuate e alla conseguente ricerca del massimo di soluzioni possibili. Dal punto di vista della didattica, gli esempi che via via si accumuleranno nei database delle soluzioni formali, che saranno aggiornati in continuazione, implementeranno con continuità un certo tipo di casistica che sarà di grande utilità per gli studenti. Contemporaneamente gli studenti studieranno come le mie cinque invarianti possano essere individuate, leggendone le soluzioni, anche quando l’architettura parlava latino e greco. I futuri architetti, dovranno quindi parlare architettura e, contemporaneamente, parlare “di” architettura.

        Aggredire questi due campi contemporaneamente non rappresenta assolutamente la formula della felicità, ma mette gli interessati di fronte a problemi reali, allo studio di interessanti soluzioni nel campo dell’architettura non contemporanea e a ipotesi di lavoro nel campo dell’architettura/progettazione contemporanea. Tutto ciò significherebbe ridare il giusto posto al rigore analitico e a quello propositivo, che negli ultimi decenni è stato sostituito da colpevolissime leggerezza e fiducie varie, leggerezze e fiducie riposte in errate concezioni delle creatività individuali degli studenti, creatività individuali, che, senza leggi, rigore e meccanismi di approccio, non fanno altro che riportare il tutto indietro nel tempo, avvicinandolo a una inesistente e dannosissima forma di presunte “ingenuità e freschezze” compositive, finte ingenuità e finte freschezze che hanno fatto più danni di una guerra.

        Se tutto ciò dovesse accadere, penso che il Bauhaus brutalmente troncato potrebbe riprendere il suo cammino, e che la frattura si potrebbe ricomporre per cui, dal punto di vista della didattica, il cerchio si chiuderebbe. E, sopra ogni cosa, la tredicesima invariante, cioè la rapida deperibilità dell’architettura moderna, assumerebbe tempi più corretti e più naturali, svanendo quindi dolcemente nel “naturale” trascorrere del tempo dell’architettura stessa. L’architettura contemporanea, non ha assolutamente bisogno della eventuale tredicesima invariante.  

 

lunedì 20 luglio 2015

MIO SITO SULLA INVARIANTI IN ARCHITETTURA



Sono molto contento perchè finalmente ho dato una veste informatica alla mia teoria sulle Invarianti nell’architettura. E’ un argomento che mi segue  da parecchi anni e che finalmente vede la luce online. Ho impiegato molto tempo, molti anni e molte mie forze per mettere a punto questa teoria, che adesso funziona benissimo.  Il problema ora è come farla camminare da sola per le vie della cultura architettonica italiana.

Il mio lavoro prende le mosse da un’idea brillantissima che nei primi anni settanta ebbe Bruno Zevi, uno dei pilastri delle cultura architettonica italiana, che era mio professore. Da qualche giorno questo sito è online e devo ringraziare per questo un mio carissimo  amico di lunga data, l’informatico Michele Zavarise della Digisystem, e, tra l’altro,  fisarmonicista jazz di vaglia.

L’indirizzo è facilissimo eccovelo qui: www.franzfalanga.it Mi piacerebbe che con tutti i vostri comodi gli deste un’occhiata e che eventualmente  spediste il link  a qualche vostro amico o amica architetto. Le cose vanno coltivate e seguite, senza mai lasciarle da sole.  franz falanga

martedì 24 marzo 2015

LETTERA APERTA AI CREATIVI DI OGNI GENERE



Questa lettera aperta è destinata a tutti creativi, a qualsiasi categoria essi  appartengano. Vorrei proporre agli amici creativi un progetto che potrebbe dare dei frutti assolutamente eccellenti, nel campo della progettazione dei propri oggetti e nel campo della didattica della progettazione medesima.
In questo blog potrete leggere in altro post, la mia teoria sulle invarianti nell’architettura, individuate da me dopo aver letto due aurei libri sull’argomento di Bruno Zevi mio professore alla facoltà di architettura a Venezia. Riscrivo qui molto brevemente questa teoria.
Come tutti voi ben sapete, ogni progettista, qualunque esso sia, quando progetta, utilizza la sua sensibilità, la sua cultura formale, le sue conoscenze tecniche, oltre naturalmente a tantissime altre componenti di varia natura, compreso il proprio umore durante la progettazione. Ebbene, Bruno Zevi aveva notato  che, durante  questo iter progettuale, qualunque oggetto fosse progettato, il creativo avrebbe incontrato in ogni caso alcuni  problemi, sempre gli stessi. Questi problemi, che non variano mai, sia nel tempo che nello spazio, furono chiamati da Bruno Zevi “Invarianti”.  
Personalmente  ho continuato a elaborare questa idea del professore e sono riuscito ad aggiungere alle sette invarianti individuate da Zevi, altre nuove invarianti, per l’esattezza cinque. In tutto, all’oggi sono state quindi individuate, da Bruno Zevi e da me, dodici invarianti. Personalmente ho verificato nel corso degli anni sia da progettista che da professore, l’esattezza di questa nuova teoria,  sia quando studiavo le opere dell’architettura altrui, sia quando dovevo progettare architetture mie.
Aggiunte agli strumenti culturali utilizzati per la progettazione tout court, queste dodici invarianti si sono dimostrate un nuovo utilissimo strumento per evitare, nei limiti delle proprie capacità, soluzioni banali, ovvie e quindi scadenti.
Chi vi sta scrivendo, alla luce di queste sue considerazioni, ha maturato la certezza assoluta che esistano invarianti in tutti i rami della creatività.  Sto per esempio parlando della cinematografia, di ogni tipo di design, delle arti figurative e plastiche, arrivando al campo letterario e quant’altro. 
Faccio solo un paio di esempi molto esemplificativi ma utile alla mia ipotesi.
Durante la lavorazione di un film, il regista si è trovato si trova e si troverà durante la lavorazione del suo film  sempre davanti ad un appuntamento con una particolare invariante. Sto pensando all’onnipresente problema di come comportarsi il particolare momento in cui si debba passare da una sequenza ad un'altra totalmente diversa, per esempio come passare da un periodo temporale della narrazione ad un periodo precedente oppure molto più avanti nel tempo. Questa invariante viene generalmente chiamata "dissolvenza". Le dissolvenze di Orson Welles, per esempio sono da manuale. Molti registi invece, non avendo la precisa contezza di quante invarianti esistano nella propria arte cinematografica, cadono quasi sempre in soluzioni banali se non addirittura scadenti.  
Passando nel campo musicale, come nel periodo barocco  i compositori passavano dal modo maggiore al modo minore? E così via di seguito.

La mia proposta dunque è la seguente: se qualunque creativo/a che dovesse leggere queste mie note, provasse ad individuare nel proprio campo le invarianti che certamente esistono ma che all’oggi non sono ancora state evidenziate, tirandole fuori dalla nebbia della non conoscenza, otterrebbero due risultati importantissimi. Il primo darebbe un miglioramento evidente sia alla propria creatività, sia alla lettura di oggetti/categorie già esistenti.  
Detto in altre parole, il primo risultato sarebbe utilissimo per chi fa della creatività il proprio lavoro, il secondo risultato sarebbe altrettanto utile per chi invece studia la storia dell’altrui creatività.  

Sono a disposizione per qualsiasi delucidazione. Mi auguro di leggere al più presto molte iniziative del genere.  Grazie per avermi letto. franz falanga  

mercoledì 25 febbraio 2015

PRIMO GIORNO DI ACCADEMIA


Ho insegnato per quarant’anni nelle Accademie di belle arti di Bari e di Venezia. Ero titolare di cattedra del corso speciale “Elementi di architettura ed urbanistica”, comunemente conosciuto come “Elarch” nella facoltà di Scenografia. Voglio raccontarvi un episodio che continua ad intrigarmi ogni volta che mi viene in mente.
Il primo giorno del corso. Ne ho inaugurati una quaratina di corsi e li iniziavo tutti sempre nello stesso modo che ora vi esporrò. La lezione era alle otto e trenta, poniamo quest’orario così per esempio, io arrivavo qualche minuto più tardi, alle otto e  quaranta e trovavo già l’aula piena con gli studenti che mi guardavano incuriositi e pronti a servirmi di barba e capelli.  
Fra quegli sguardi, ne leggevo parecchi che pensavano: eccolo qui il nuovo prof, speriamo che non sia il solito rompiscatole! Io salivo sulla pedana dove c’era la cattedra e la lavagna, dicevo buongiorno e mi presentavo, subito dopo mi avvicinavo alla lavagna, prendevo un gessetto poi cercavo a caso qualcuna o qualcuno fra gli studenti e lo chiamavo sulla pedana.
Con un lievissimo imbarazzo l’invitato si avvicinava alla lavagna ed io, dandogli il gessetto, gli dicevo: “Grazie per essere venuto, per favore costruiscimi un quadrato”, cercando di avere una voce la più naturale e meno imbarazzante possibile
Lo studente con un qualche imbarazzo si avvicinava alla lavagna e “disegnava” un quadrato. Questo episodio si è ripetuto “sempre nelle stesse modalità” per una quarantina di volte, sia al Sud che al Nord. Subito dopo aver tracciato il quadrato lo ringraziavo con gentilezza e gli dicevo che poteva tornarsene al posto. Tutti mi guardavano straniti. Subito dopo, molto tranquillamente, rivolgendomi a tutti e dicevo << ragazzi ho detto “costruire” non ho detto “disegnare”. Come certamente ben saprete sono due parole molto diverse fra loro. Vi sarete resi conto subito che l’importante, nella comunicazione è che la medesima non sia a senso unico ma che si muova nei due sensi>>. Immediatamente scattava un lampo negli occhi dei miei studenti, avevo forato il muro di ghiaccio e avevo tirato fuori la loro curiosità. Il rapporto prof studenti era iniziato bene.  

Dopo di che invitavo qualche altro a “costruire” un quadrato e vi garantisco che se ne vedevano delle belle. Sul quadrato, senza che nessuno si stufasse, restavamo a lavorare per un paio di settimane finchè si cominciava ad entrare in punta di piedi nel mondo delle forme per poterle prima individuare e poi manipolare in moltissime maniere. Di questo ne parleremo la prossima volta. Se qualche giovane lettore volesse provare a “costruire con la sola matita senza compasso e squadre” oppure “con compasso e squadre e quant’altro”  si accorgerebbe che di maniere per costruire una forma piana ce ne sono una infinità. Alle prossime.  

martedì 24 febbraio 2015

UN CAPOLAVORO DELL'UMANITA'


CAPOLAVORO DELL’UMANITA’

Stamattina  ho preso la decisione di dedicarmi a Bach che, come sapete, è il cognome di Dio. Ho dunque ascoltato in religioso silenzio moltissime suite francesi. Vi invio un link della numero cinque, ascoltatelo con attenzione e vi rigenererà. Prestate particolare attenzione alla mano sinistra

http://www.youtube.com/watch?v=S-7v_AUNN4c
J.S.Bach / Andràs Schiff suona la suite francese #5


Ascoltando questa suite, mi sono chiesto da dove il carissimo Bach prendesse quei meccanismi sonori, che, tra l’altro, sono anche abbastanza facili  da suonare, ma, che pur essendo facili, si fa per dire, sono dei capolavori assoluti.

La cosa che più mi ha intrigato è stato il pulitissimo uso della mano sinistra. Con la destra il pianista suona un fraseggio abbastanza complesso, mentre con la sinistra utilizza un fraseggio di una semplicità sconcertante. Fraseggio talmente facile, che, anche io, dilettante  scarrupato e ignorante, riuscirei a leggere.

Usando la mano sinistra in maniera così esemplarmente leggera, Bach costruisce un accompagnamento di infinita bellezza. Sono convintissimo che, se fosse vissuto ai giorni nostri, avrebbe certissimamente fatto delle magnifiche incursioni nella musica jazz. franz falanga 

venerdì 20 febbraio 2015

UNA GRAN BRUTTA MUTAZIONE

UNA GRAN BRUTTA MUTAZIONE
Nel gennaio del 1954 io avevo ventuno anni e ai primi dello stesso mese in Italia la Radio Italiana iniziò a diffondere i suoi primi programmi televisivi. Come prima cosa si iniziò ad  acquistare televisori. Nel mio condominio, un palazzo di tre piani a Bari,  c’erano sei famiglie. La prima famiglia con un televisore fu una del terzo piano. Mi ricordo che per diversi mesi, ogni sera tutti i condòmini si portavano su le sedie fino al terzo piano, per “vedere” la televisione.
In un annetto praticamente tutti acquistarono un televisore e ognuno restò/ritornò nelle proprie case. I primi mesi del 1954 sono stati quindi molto collettivi e aggreganti in tutt’Italia, dopo, ognuno tornò nelle proprie giungle private e da qual momento, nell’intera comunità nazionale, iniziò una mutazione.
Questa mutazione, senza che nessuno se ne accorgesse,  iniziava a mutare la cultura della città dolcemente e lentamente. Iniziammo ad accorgerci di questa mutazione quando i segni -  segnali, erano diventati più frequenti e, soprattutto più chiari. Ci saranno voluti sei sette anni, poi, ahimè, in pochi  iniziammo ad accorgercene. Fino al “Musichiere”, condotto con signorilità da Mario Riva, tutto procedeva teneramente e con estrema simpatia.
Cominciarono, sempre quei pochi, ad accorgersi che qualche cosa stava cambiando con l’avvento di Mike Buongiorno, un giovanotto italo americano che furoreggiava sulla rete nazionale, avendo una valletta bella ma muta, nuova professione foriera di cose enormi nel campo del futuro  gossip e della futura scadente morale corrente.
A ciò si aggiungeva una nuova figura professionale, un signore mai inquadrato dalle telecamere che, a un suo cenno, faceva applaudire, ridere, mugugnare il pubblico. Il pubblico, gli spettatori, insomma tutti quelli che “guardavano”  la  televisione, iniziavano a non pensare più con la propria testa (ricordatevi del Picchio di Davide Ceddìa) ma a pensare con la testa di misteriose divinità nascoste che iniziavano a proliferare in quella realtà virtuale che appariva a tutti come una componente della vita, ma che in realtà era ed è un simulacro di vita, un guscio vuoto di vita, nel migliore dei casi.   
La mutazione che ci era capitata fra capo e collo, non certo per nostra scelta, nostra nel senso di popolo, era ormai sopra di noi come una nuvola pesante e oscura, fermamente  ancorata sulle nostre esistenza e stava inziando a produrre i suoi effetti che sempre più diventarono micidiali.
Il mostro del consumismo, nato nel nuovo mondo americano, strumento del capitale, diventava sempre più sottile, sempre più capace di influenzare le coscienze, le nostre vite senza che ce ne accorgessimo.
Potrei continuare all’infinito, ma preferisco tornare con i piedi nel nostro presente quotidiano, all’oggi come dicono quelli che parlano difficile. La mutazione è diventata gigantesca e nello stesso momento, è diventata invisibile, nessuno più ci fa caso, nessuno più la nota, nessuno  più, salvo pochissime eccezioni, si rende conto di essere mutato personalmente nel senso che da umano, è lentamente diventato un umanoide, per poi arrivare a diventare una perfetta marionetta, con tutti i connotati di una persona normale, con la differenza di essere fatta di legno e di avere alle mani , alle braccia, ai piedi, alle ginocchia, al collo, dei fili invisibili che sono maneggiati con astuzia inimmaginabile da una schiera di burattinai, a loro volta manipolati da pochi burattinai che ormai sono diventati i padroni della terra e che abitano in regioni, in paradisi, sconosciuti.
Come se ne esce? Facile, (si fa per dire): se ne esce  con l’unico strumento che abbiamo disposizione, con la Scuola.
Condizione necessaria e sufficiente  è che i professori e le professoresse non siano loro stessi burattini e burattine. Questo è il problema terribile che  fa dei professori dei nostri poveri figli, delle persone mitiche, magiche, potenti, in senso positivo.  Ma, all’oggi, come direbbero quelli che parlano difficile, sono pochissimi, e quelle poche e quei pochi che ci sono confinati nella palude dei sovversivi, dei cattivoni, dei malvagi, di quelli insomma che non si fannoo i fatti propri.
E così torniamo ai Borboni di un  paio di secoli fa. Oltre agli americano con la loro pubblicità, molto prima di loro avevano provveduto i Borboni, europei dunque. Feste, farina e forche. Festeggiamenti spettacoli televisivi odierni quanti ne volete, una, dieci, cento isole dei famosi, farina, ristoranti pieni osterie piene, luoghi di divertimento culinario e guardone finchè ne volete, a patto di evitare di pensare. Pensare fa male, porta alla forca. franz falanga